Cassa integrazione, disoccupazione e disperazione

Dammi tre parole diceva una canzone che ci ha accompagnato nell’estate, ormai lontana, del 2001, tre parole come quelle che accompagnano gli italiani in questo difficile momento.

La pandemia si è portata via tutto prima di darci una tregua (speriamo non provvisoria). Ha ucciso, ha bloccato sogni, aspirazioni e progetti, ha interrotto la routine, ha distrutto posti di lavoro.

La cassa integrazione ha funzionato solo in parte, lenta, snervante, mentre le famiglie stentano ad arrivare a fine mese. D’altronde, aspettarsi qualcosa di diverso sarebbe stata pura utopia, siamo il “Paese del dopo“, quello che agisce dopo che si verifica l’ermegenza, che cura al posto di prevenire.

Un sistema che fa fatica a funzionare nella normalità come può reggere l’urto di una pandemia? La burocrazia ha ritmi elefantiaci, è tarata per essere estremamente complessa, non puoi trasformarla, nel giro di qualche mese, in un qualcosa di sinuoso, elastico e soprattutto rapido.

Poi c’è la disoccupazione, “amica sgradita” ma ben radicata, ormai fedelissima in epoca di coronavirus: si prevedono quasi 400 mila disoccupati in più, che si aggiungono a quelli già di lungo corso. Noi la risolviamo col reddito di cittadinanza mentre esistono paesi che addirittura investono e creano nuovi posti di lavoro.

E poi c’è la disperazione, perché un uomo senza lavoro si sente vuoto, inutile alla causa, non produce e non contribuisce alla società, vede costantemente porte sbattute in faccia da uno Stato che elargisce fiumi di denaro a pochi eletti.

Ci sono aziende che hanno approfittato del momento perché il coronavirus può essere una straordinaria occasione per “mangiare“, per rimpolpare stipendi milionari togliendo da “mangiare” ai lavoratori e alle loro famiglie. Ci sono aziende costrette a licenziare perché disperate e altre che sfruttano il momento per fare piazza pulita. Imprenditori con le mani legate e col cuore spezzato e caterpillar del potere senza scrupoli.

Uno Stato con la S maiuscola si assicura che tutti i cittadini abbiano i sussidi previsti per dare da mangiare alle proprie famiglie.
Uno Stato con la S maiuscola crea condizioni per nuovi posti di lavoro e non si limita solo a rattoppare.
Uno Stato con la S maiuscola cura la sua macchina burocratica anche in condizioni di normalità per farsi trovare pronto in caso di emergenza.

 

Ezio Bosso e quel sorriso immortale

Se ne è andato Ezio Bosso, grande musicista ed esempio di vita, a soli 48 anni. Un gigante della musica, direttore d’orchestra, compositore e pianista torinese, un vulcano di creatività che neanche una brutta malattia neurodegenerativa ha mai saputo fermare.

Una mancanza che si sente, eccome se si sente!

Ho smesso di domandarmi perché. Ogni problema è un’opportunità“, diceva, uno straordinario esempio per chi si perde di fronte alle piccole cose del quotidiano, Ezio suonava, dirigeva un complesso armonico di strumenti, era rigoroso, nonostante le incredibili sofferenze che affrontava.

Ha studiato tanto per fare la sua musica, otto ore al giorno per diventare un grande, ha colpito tutti per la sua dignità, si è sempre arrabbiato quanto per lui si è provato “compassione” o addirittura “pietà”, voleva essere sempre giudicato per il suo modo di essere e per come sapeva comporre e creare.

Uomo pieno di ideali e con un’etica encomiabile, ha sofferto molto per la deriva intrapresa dalla società odierna, soprattutto per la mancanza di cultura e merito.

Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono“.

Il fisico lo tirava giù ma la mente e il cuore lo facevano volare, il sorriso lo portava più in alto di tutti ed era sempre lì ad illuminare il suo viso.

Adesso, in quel posto più alto di tutto e tutti, sono sicuro starà emanando il suo proverbiale entusiasmo, starà coinvolgendo come al solito a suon di musica e parole.

Non è facile trovare un uomo così completo, non sarà facile fare a meno di Ezio Bosso.

Leoni sui social, agnelli nella realtà

Internet aiuta le persone ad imparare, dà una grossa mano ai timidi nel loro processo di socializzazione,  velocizza alcuni processi, rende tutto più facile.

Internet aizza però anche i cosiddetti “leoni da tastiera“, gente cattiva, frustrata o che semplicemente vuole farsi vedere, che vuole sentirsi qualcuno. Le notizie girano alla velocità della luce, alcune vere, moltissime false o come si usa dire oggi “fake”.

Tutti giudici a battere nella tastiera, siamo allenatori durante i mondiali, esperti di terrorismo durante le liberazioni, esperti di virus nelle pandemie, abili cuochi, conosciamo tutti i segreti della moda, insomma sappiamo tutto di tutto e guai se qualcuno sbaglia, siamo pronti a colpirlo.

D’altronde se si è sui social bisogna stare attenti no? Bisogna non sbagliare un passo. Peccato però che siamo umani, che ci siano storie e sentimenti, che ci siano passaggi della vicenda che non possiamo conoscere, siamo fallibili, possiamo anche incappare in uno svarione.

Ma il leone da tastiera non perdona, un nuovo mestiere a tutti gli effetti, eccolo lì da predatore, è pronto a colpire, criticare, emana cattiveria a distanza, spara sentenze e non accetta dialogo, confronti o discussioni.

Lui sa e guai a noi a contraddirlo, sarà leone di una giungla senza confini e regole, tornerà ben presto ad essere agnello nella vita reale.

“Finalmente la luce: Silvia è tornata, Silvia è libera!”

Sono qui con i miei bambini, nel mio habitat naturale, sto facendo del bene, volontariato, una parola ormai tatuata sulla pelle, il mio modo di vivere. Sfodero il mio bel sorriso, la vera chiave per aprire le porte della felicità, contagioso e coinvolgente, di quelli che influenza positivamente gli altri.

Un’armonia comune, quasi una magia, ci si diverte con poco, con bambole di pezza e pezzi di carta che fungono da palloni, ci si nutre dell’essenziale, un poco d’acqua e poco cibo nutriente, si va avanti giorno dopo giorno non dando nulla per scontato.

Un giorno di novembre si è spenta la luce, mi hanno preso e portata lontano da quel mondo magico, mi hanno rinchiuso, rapito, poi proprio a me, chissà perché… Non mi sento una persona speciale, fare del bene è una missione di vita, senza assecondare questo modo di essere mi spengo.

I giorni passano lenti, mi aggrappo ad una speranza, ai ricordi di quei bambini, di quei sorrisi, penso alla mia famiglia, al mio Paese, si staranno preoccupando per me? I miei aguzzini non hanno quella luce speciale che illumina chi fa del bene, sono positiva di natura ma mi interrogo, cosa mi riserverà il futuro?

Voglio rendere felici le persone accanto a me ma stando segregata qui non posso farlo, anzi sto dando una gran pena ai miei cari, sto rovinando le loro giornate, magari persone che neanche conosco si sono affezionate a me, sarò finita nelle prime pagine dei giornali e in ogni edizione del tg, ma non per una buona azione, bensì per il mio rapimento.

Sono stata rapita e non so nemmeno da quanto, non ho un calendario, un orologio, sarà passato un anno, un lunghissimo anno senza la mia vita, rido a me stessa e penso a quello che farò dopo, a come recupererò il tempo perduto.

Stamattina mi sono svegliata bene, ha una strana carica, mi sento energica eppure è la solita giornata, rido ancora a me stessa e mi faccio forza, i miei rapitori aprono la porta e vedo finalmente la luce, Silvia è tornata, Silvia è libera, tornerà a fare del bene ancora, anche se questo mondo le ha voltato bruscamente le spalle.

Dedicato a Silvia Romano, la volontaria rapita e liberata dopo un anno e mezzo in Kenya.

Il coronavirus amplificherà il bello e il brutto dell’umanità

Nella vita bisogna saper ammettere i propri errori e fare marcia indietro prima che sia troppo tardi. Ad inizio quarantena mi era espresso pieno di ottimismo e, ci tengo a precisare, questo ottimismo non si è disperso, anzi dovremmo provare sempre a vedere il bicchere mezzo pieno.

Il 9 marzo scrivevo “il coronavirus ci renderà persone migliori“, preso forse dalla compostezza e dal rispetto delle regole da parte degli italiani in quei pochi giorni di quarantena, tuttavia sono passati quasi due mesi e ho avuto modo di riflettere e di vedere nuovi comportamenti e atteggiamenti.

Domani, 4 maggio, l’italiano verrà ufficialmente liberato seppur con tanti accorgimenti ma già in queste ore sta dando il peggio/meglio di sé: chi già è a fare amabili passeggiate a mare o in piazza senza rispettare le distanze e sprovvisto di mascherine e chi rispetta le regole e il blocco fino all’ultimo secondo.

Il coronavirus è un amplificatore sociale, ha esaltato le doti, la bellezza e i comportamenti di certe persone, ha illuminato l’altruismo di vicini, volontari e uomini comuni, ha dato l’opportunità alle famiglie che volevano di recuperare il tempo perduto, ha regalato momenti indimenticabili per crescere, per formarsi, per mettere ordine tra le priorità della vita.

Il coronavirus ha amplificato anche la maleducazione e la strafottenza della gente, già si vedono le mascherine e i guanti inquinare le strade e il mare, già si vede l’egoismo di chi pensa solo ai propri fatti, la smania di onnipotenza, sta ricomparendo l’aura di immortalità di certi esseri umani. E ancora la lentezza della burocrazia, i soldi che non arrivano, i fallimenti, la povertà e le sanguisughe che ne approfittano.

C’è il bene e il male e neanche un virus di questa portata ci porterà tutti sulla stessa barca. Chi vuole crescere ne approfitterà per crescere ancor di più, chi si sente già arrivato coltiverà il proprio brutto giardino interiore, c’è chi soccomberà sul lavoro o chi farà i soldi con idee originali, il politico che si prodigherà e quelli che ne approfitteranno per fare campagna elettorale.

Ci sono arrivato tardi, ma ci sono arrivato: il coronavirus sarà una grossa cassa di risonanza sia del bello che del brutto, eh no, non diventeremo un popolo più unito e altruista ma saremo esattamente lo stesso popolo di prima, nel bene e nel male.