Emergi con il bene, non con la violenza!

Nuova Zelanda, un folle distrugge la vita di 49 persone fomentando odio e violenza.
Parigi, manifestazioni e guerriglie, scontri, idee affermate senza guardare in faccia nessuno.
Passa un messaggio devastante: per emergere devi essere un violento. Avrai così titoloni sui giornali, siti che apriranno col tuo bel faccione, con la storia di una tua coltellata conficcata nella pancia di una giovane donna, sei tu il protagonista del male, sei diventato qualcuno, non sei più quel ragazzo anonimo che navigava in acque serene.

Ma sei tu a scegliere i riferimenti della violenza! Certo l’ambiente in cui vivi ti condiziona ma esistono casi di persone insospettabili che sono diventati emblemi del male. Siamo tutti un po’ responsabili: noi che condividiamo solo notizie negative, gli operatori dell’informazione che le veicolano, avete mai visto infatti un’apertura di un quotidiano o di un sito web con una notizia positiva?

E se aprissimo con una bella giornata in cui i volontari hanno raccolto rifiuti in una delle più importanti spiagge italiane? Se titolassimo in prima pagina con la mobilitazione pacifica in piazza dove si chiede di abolire la pena di morte? Si fa del bene in mille modi, con riferimenti culturali, con i libri, con azioni facili da fare nel nostro quotidiano ma dai riflessi inimmaginabili.

Perché è passato il messaggio che si diventa “famosi” o “qualcuno” solo facendo del male? Perché non ribaltiamo la prospettiva e mettiamo al centro del villaggio il bene e la bellezza?

Facile a dirsi, finché saremo mossi da logiche che prescindono dall’umanità e che guardano più al commerciale e al business, dovremo convivere con questa assurda follia.

Mettiamo un sorriso al posto di un volto intriso d’odio, emergiamo con il bene e non con la violenza.

La bellezza dei ragazzi “Ibiscus”

Dieci anni e passa di volontariato nei reparti di oncologia pediatrica, ne ho visti tanti, forse troppi, perché non puoi proprio abituarti al binomio bambino-malattia. Alcuni di loro li avrò sicuramente incontrati, immagini nella memoria, sorrisi nella sofferenza e storie da raccontare.
Lo scorso weekend sono stato protagonista di un sogno, no, non per il ruolo che ho ricoperto nella “Winners Cup” di Milano, allenatore (in seconda) di una squadra che sapeva già benissimo il fatto suo, ma per lo spettacolo che mi sono goduto “da dentro”.
Dodici ragazzi, un unico obiettivo, divertirsi, senza animosità, con spirito di fratellanza vera, nulla “di circostanza”, solo grande genuinità, nei rapporti, nei sorrisi e anche nelle difficoltà. Dodici ragazzi che hanno vinto il male più grande, che fai fatica anche solo a pronunciarlo, e poi altri dodici, altri dodici e altri dodici ancora, a rappresentare i centri di oncologia pediatrica di tutta Italia. La nostra squadra portava trionfate il logo della Lega Ibiscus Onlus, associazione dei genitori di Oncoematologia Pediatrica della Sicilia Orientale.

I sorrisi ma anche le lacrime, senza vergogna, davanti alle storie di chi sta combattendo la stessa battaglia, il tutto in una cornice da sogno, il centro sportivo dell’Inter, squadra di “campioni” a disposizione di questi “campioni della vita“.
L’entusiasmo di un autografo dal vicepresidente dell’Inter Javier Zanetti, le strette di mano con gli avversari, gli abbracci, la mano protesa dopo una caduta sul campo di gioco, tutte cose che ci siamo disabituati a vedere, specie in uno sport sempre più disinteressato ai sentimenti come il calcio.

Il risultato del campo è già scritto, indipendentemente dalla classifica, è vittoria su tutti i fronti, perché quando a trionfare è la vita non ci sono primi e secondi.
Il goal è già stato fatto, con un destro secco all’angolino, ma c’è sempre tempo per pensare agli altri, per un assist al compagno in difficoltà, nessuno è lasciato solo nella sua strada verso il successo.

Mi sento un privilegiato che ha fatto un bagno nel “mare dell’umanità”, un ragazzo di 31 anni che non smetterà mai di rimanere a bocca aperta davanti a cotanta bellezza.

L’ospedale del sorriso

Metti un luogo triste, l’ospedale. Aggiungi l’espressione massima della felicità, un bel sorriso spontaneo. Prova ad unirli e vedi cosa ne esce fuori.
Anche la sofferenza può essere anestetizzata da una risata, persino la malattia può essere esorcizzata col buonumore. Nessuno vuole sminuire niente, nessuno vuole trascurare lo sgomento davanti ad un bambino malato di cancro. Ma la sofferenza non può averla vinta su tutto: sulla spensieratezza di un piccolo ribelle, sulla splendida ingenuità di una ragazza adolescente, sulla inguaribile voglia di sognare di un ragazzo alle prime armi della vita.

L’ospedalizzazione del bambino è un tema importante. I piccoli eroi passano intere giornate, mesi, a volte anni, nei reparti. Entrano carichi, poi sono spaesati, per certi periodi si spengono, si aggrappano con le unghie e con i denti alla loro voglia di giocare, rivendicano il loro diritto di essere bambini. Spensierati, maledettamente affascinanti, con un sorriso che non accenna a spegnersi. La malattia è lì ma un tizio sorridente, col camice e il naso da clown li accende all’improvviso. L’indomani potrebbero non svegliarsi o ricevere la notizia più bella della loro vita ma il gioco non può aspettare, il sorriso reclama il suo spazio.

Insegnano storie ai più grandi, lezioni di vita racchiuse nella semplicità, spunti grandiosi per diventare uomini migliori. Ti ci affezioni, loro si affezionano a te ma devi mantenere una piccola distanza, per te, per loro, per il bene di tutti.
Il sorriso tiene accesa la speranza, la speranza tiene alta la guardia sulla malattia. Certe cose le puoi decidere tu, altre dipendono dal destino, ma lo spirito può fare tutta la differenza di questo mondo.

Tutti meritiamo un sorriso, anche in ospedale, anche quando tutto non ha un senso, per questo ho deciso di scrivere “Cellule Impazzite”. Una storia che fa bene al cuore, che risveglia la nostra sensibilità, di cui ci vergognamo troppo spesso.

Ve lo dice un volontario che va in reparto da dieci anni, ve lo dice chi è sempre più grato di poter stare accanto a dei piccoli guerrieri sorridenti.

Devo vivere per te

Devo vivere per te che intubato, paonazzo e senza respiro, non hai smesso un attimo di dispensarmi i tuoi sorrisi.
Devo vivere per te, che con una gamba acciaccata e col serbatoio di energie svuotato da una malattia illogica, non hai smesso un attimo di giocare
Devo vivere per te, una flebo al braccio migliore amica della tua giornata, nonostante la spensieratezza dei tui grandi occhioni azzurri.

Devo vivere per te, per i tuoi capelli che si sono nascosti in attesa di tornare più belli di prima.
Devo vivere per te, magro e pallido a rivendicare il tuo diritto a soffrire in santa pace.
Devo vivere per te, grande e grosso all’entrata, piccolo e fragile all’uscita.

Devo vivere per te, pazzo per la società, tremendamente affascinante nella tua creatività.
Devo vivere per te, gli occhi fermi e bui, la vista del cuore che apre nuovi orizzonti.
Devo vivere per te, che anche se down in inglese significa giù, mi hai fatto andare su, come in un ascensore supersonico

Devo vivere per te, ora ancor di più, sei andato in un mondo migliore ma non ti hanno chiesto il consenso.
Devo vivere per te, perché anche un ospedale può diventare il posto migliore del mondo.

Devo vivere per me perché tu lo hai fatto, fino alla fine.

Il volontariato allunga la vita

Volontariato, una parola che si usa e di cui si abusa. Dovrebbe essere un’azione silenziosa, quasi naturale, figlia dello scopo originario di ogni essere umano di aiutare gli altri ma spesso è sbandierata, serve come veicolo per accumulare potere, come vetrina per farsi belli agli occhi degli altri.
Credo però che il volontariato non debba essere tenuto per sé, credo che le belle azioni debbano essere diffuse, in modo da essere esempio per altri, in modo da avvicinare quante più persone possibili all’altruismo e alla fratellanza. L’importante è l’intenzione con cui ci approcciamo a esso e, anche se qualcuno dovesse fare un’opera di bene per un proprio tornaconto in termine di immagine, sapete che vi dico, basta che la faccia!

Il volontariato allunga la vita, perché l’uomo non è nato per essere egoista e se lo è prima o poi ne paga caro il prezzo.
Il volontariato allunga la vita delle persone cui prestiamo il nostro soccorso, il nostro tempo, il nostro affetto, impareggiabili, molto più preziosi di qualsiasi offerta di denaro.
Il volontariato allunga la vita perché se fai del bene prima o poi ritorna, sotto svariate forme e, anche se non ritorna, comunque si è fatto qualcosa per migliorare questa società.
Il volontariato allunga la vita perché chi lo fa incide sulla struttura di una società, di una Nazione, del mondo intero, anche in una parte infinitesimale.
Il volontariato allunga la vita perché una vita in cui veniamo ricordati per qualcosa che facciamo nella società e per la società, ci deve sembrare per forza più lunga.

Fate volontariato con i bambini malati e vedrete che ogni gioco non avrà neanche un quarto del valore della compagnia che gli state facendo.
Girate la sera per la città, avvicinatevi ad un senzatetto e dopo avergli dato coperta, cibo e bevande, mettetevi a parlare con lui, vedrete che di quel giorno si ricorderà solo l’amabile chiacchierata con voi.

Il volontariato allunga la vita, la vostra e quella delle persone a cui “prestate” il vostro tempo e il vostro cuore.

Essere clown ad Aleppo

Un po’ di rosso sul naso e sulla bocca, parrucca arancione, cappello giallo, occhiali da intellettuale. Un rituale per Anas Al-Basha, il clown di Aleppo, capace di strappare un sorriso a centinaia di bambini. Sì, sembra una scena come tante, uno dei volontari che si prodigano, giorno dopo giorno, per aiutare il prossimo ma il luogo è davvero suggestivo, purtroppo, in negativo. Siamo in Siria, dove ogni giorno muoiono civili, dove la vita umana ha un valore nello stesso tempo enorme e piccolissimo, a seconda del punto di vista dettato dalle logiche perverse della guerra.

Anas amava la vita, 24 anni, operatore nello ‘Spazio per la Speranza‘, un’organizzazione che assiste i più deboli in un territorio martoriato ormai da troppo tempo. Una bomba ha oscurato per sempre quella faccia simpatica, ha spento quel sorriso, ha privato i bambini di momenti di spensieratezza con il loro nuovo amico. Coraggioso e generoso perché poteva allontanarsi da tutta quella sofferenza. I suoi genitori, infatti, si erano trasferiti in campagna, lontano dai pericoli. Aveva una missione nella vita, l’aveva scoperta presto, doveva distrarre i bambini dagli orrori della guerra, si esibiva nei suoi spettacoli di prestigio sapendo che tutto poteva finire, da un momento all’altro.

Chissà quante volte Anas avrà sentito le bombe esplodere, probabilmente vicine. Cosa avrà detto a quelle splendide creature con cui stava giocando? Avrà inventato qualcosa, come nella più bella delle favole o avrà detto loro la verità? I bambini siriani, d’altronde, non sono come gli altri, costretti a crescere, subito, a confrontarsi con amici storpi, spariti nel nulla, saltati in aria. Il clown Anas non voleva rassegnarsi, credeva fosse necessario vivere la quotidianità, una giornata normale, dove ridere e divertirsi. I piccoli siriani dovevano esprimere il loro diritto al gioco e quindi si arrangiava con le poche cose a disposizione che bastavano, sempre. La semplicità del bambino contrapposta alla complessità dell’adulto, la pace e la guerra, una battaglia continua, la stessa che si è portata via Anas Al-Basha, il vero eroe dei tempi moderni, perché fare il clown ad Aleppo vale doppio.

(Foto Ansa)

Il calendario del sorriso e della speranza

Io e Barbara ci rincorriamo per un po’ di giorni prima di sentirci. All’inizio non riesco a risponderle io, poi non può lei ma dall’inizio mi regala una grande carica grazie ad un semplice messaggio vocale. Le dico affranto che non l’ho potuta chiamare perché ero carico di lavoro e lei con una voce squillante e carica di allegria mi dice di non preoccuparmi e di essere “happy”. Bastano queste parole per cambiarmi la giornata ma so che il meglio deve ancora venire. Ci sentiamo nella giornata di sabato, lei è Barbara Maino, biologa catanese di 29 anni, e da nove mesi combatte contro un tumore rarissimo al surrene. Cominciamo a parlare delle nostre vite e dei nostri progetti, Barbara è un vulcano di idee e positività, ogni tanto la sua voce si fa un po’più seria ripensando ai cinque cicli di chemioterapia e al sesto che presto dovrà arrivare e che sarà l’ultimo per cercare di combattere la malattia.

Barbara è un’altruista nel dna, mi chiede notizie sulla mia associazione di volontariato, manifesta il suo rammarico perché le varie associazioni non le consentono di ricoprire il ruolo di volontaria. Non si perde d’animo, non perde un’ora del suo preziosissimo tempo, si mette subito all’opera ed elabora un nuovo progetto, un calendario virtuale fatto da foto di persone che hanno combattuto o combattono contro il cancro. Il suo post su Facebook diventa ben presto virale: “L’idea è quella di creare una sorta di calendario virtuale. Mi rivolgo a chi combatte o ha combattuto contro il cancro. Potremmo unire tutte le nostre foto e postarle mensilmente su una pagina Facebook spiegando in poche righe chi siamo e come abbiamo sconfitto o stiamo sconfiggendo il tumore. L’obiettivo è triplice: da una parte avviare una campagna di sensibilizzazione, da un’altra fare donare una speranza a chi non ce l’ha e ancora raccogliere fondi per la ricerca sui tumori rari».

Barbara crede fortemente in questo progetto, il suo carico di entusiasmo diventa ben presto anche il mio, il suo cuore generoso si proietta sull’umanità intera, sulla parte colpita dalla malattia ma anche sulle persone che hanno bisogno di qualsivoglia aiuto.

Un calendario con le foto di chi vuol metterci la faccia, di chi ha capito il vero valore della vita, di chi non si arrende mai ma anche di chi sta vivendo il suo periodo di grande sofferenza. Uno strumento tangibile per raccogliere fondi per la ricerca, elemento che sta molto a cuore ad una biologa come Barbara. Basta davvero poco per realizzare questo progetto portato avanti con entusiasmo da una ragazza che ci ha messo la faccia.

Adesso è il vostro turno, per mandare le vostre foto e per diffondere questa iniziativa!!!
Ecco il link della pagina, “Nel cassetto di ALIce”

https://www.facebook.com/nelcassettodiALIce/?pnref=story.unseen-section

Basta poco, come mi ha insegnato Barbara in queste trenta intensi minuti di chiacchierata.

Luca, la popolarità e le notti da leoni

La sveglia suonava e a Luca tornava in mente una frase: «Sei davvero un’altra persona, non mi dai la possibilità di starti vicino proprio nel momento in cui ne avresti più bisogno. Tieniti le tue conoscenze, decisamente più stimolanti di me, ma lasciami dire che non può uno scrigno così pieno di gemme essere saccheggiato in questo modo!».

Luca era rimasto stupito e aveva pensato: «Non avrei mai voluto sentirmi dire questo da Marco, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso del mio nervosismo. Detto poi proprio da lui, una vita passata insieme, 14 anni su 18. Ora l’invidia lo sta accecando. Lui, in piena regola all’università ma con una vita sociale piatta, mai un bicchiere e sempre così razionale, era ovvio, doveva capitare! Tutte le mie amicizie, i miei divertimenti, insomma la mia felicità, hanno provocato in lui una cappa d’invidia che ha tirato fuori in quest’occasione.

I veri uomini escono in questi momenti! Al diavolo tutti questi anni passati da fratelli, il benservito se lo è meritato e poi, d’altronde, se i miei amici mi vedessero in giro con uno sfigato del genere cosa penserebbero? La mia fama crollerebbe. Ma cavolo ci vuole così tanto per capire che a quest’età esistono solo popolarità e divertimento?».

Una vita che andava a rotoli ma che per Luca scorreva normalmente. Credeva di aver trovato la felicità nelle  discoteche, nelle belle ragazze da far ubriacare per poi concludere la nottata e nelle mattine passate a rotolarsi a letto, con quella sveglia inutile che continuava a puntare sua madre e che lui continuava a spegnere, semplicemente voltandosi dall’altro lato.

Clara, i numeri pari e la penna di Eurodisney

Dieci giorni al compleanno, un altro segnetto su quel piccolo calendario che teneva sempre sul suo comodino. A volte pensava addirittura di essere fortunata nel poter disporre dei fogli mentre i carcerati erano costretti a segnare i giorni facendo dei taglietti al muro delle loro celle.

Si diceva spesso: «Io posso spuntare la data con una penna», la solita, di Eurodisney, ricordo unico e indelebile dell’ultimo viaggio prima del calvario che, suo malgrado, l’aveva travolta.

16 anni, cominciavano ad essere tanti per Clara, così almeno sosteneva: «Mi sto facendo vecchia, per fortuna è una cifra pari, come quelle che piacciono a me. Il dispari mi è sempre sembrato qualcosa di strano, fuori dalla norma. Credo che a comandare siano i numeri pari. Abbiamo due polmoni, due reni, due orecchie, due gambe e due mani, è vero, abbiamo un cuore ma questo è diviso in due atrii e due ventricoli e se la matematica non è un’opinione, 2+2 fa 4, numero pari. Sarà una fissa ma il dispari mi sa di incompleto!».

Poche pretese ed un unico desiderio, quello di festeggiare con i compagni di scuola: «Mi immagino già a casa con la mia famiglia e i miei amici. Cavolo quanto è semplice essere felici, come fanno gli uomini a non capirlo? Voglio poter tornare a parlare con loro, a ridere di gusto come solo alla nostra età si sa fare, poter spettegolare con le amiche su Tizio piuttosto che su Caio». Richieste normali, da ragazza, ma la vita aveva altri piani per lei. Stava crescendo in modo così rapido da farle sembrare, un puntino disperso nella memoria, anche quelle semplici e spensierate chiacchierate.

Clara è la prima protagonista del libro che uscirà presto in libreria.
Che idea vi siete fatti di lei da queste poche righe?

Io la definirei vulcanica, folle e incredibilmente forte ma questo è solo l’inizio…

I mille colori del cancro

Potere dei social, veicoli potentissimi di messaggi e immagini. Un hastag lancia la campagna “Sfida accettata”, dove si chiede di postare foto in bianco e nero, l’argomento attorno al quale ruota tutto è di quelli delicati: il cancro.
Ecco allora foto di tutti i tipi, seni e sederi, sorrisi, facce ammiccanti, roba fuori tema ma rigorosamente in bianco e nero, quale sia il nesso poi con il messaggio per cui è stata creata la tendenza non è dato saperlo. La pensa così anche Deborah, 41 anni, mamma e moglie, lei con la malattia ci combatte da un po’. Dalla sua pagina Facebook seguitissima e ricca di speranza, si interroga sui contenuti dell’iniziativa e sui colori, sul grigio che non rappresenta proprio la sua visione della vita.

Non posterò alcuna foto di me, nonostante faccia il volontario Abio negli ospedali da anni, anzi come immagine principale vedrete il bel sorriso di Deborah, che ride, appunto, nonostante tutto. Lei, durante le giornate in ospedale, di colori ne vede tanti, ogni stato d’animo ha una sua caratteristica, ogni sfumatura ha il suo significato.
Sì, di sicuro anche il nero, il buio di un tunnel dall’uscita distante ma non irraggiungibile. Vedrà il bianco dei camici dei medici, suoi compagni di viaggio, ma anche del suo viso, messo a dura prova dalle cure. Bianca però è pure quella farfalla che vede poggiarsi, ogni mattina, al vetro della finestra.
Nero è ancora il televisore, strumento per evadere da quel mondo che le sta stretto. Nero è anche il vestito di 18 anni di sua figlia, emozionata per essere diventata “grande”.

Rosa è uno dei suoi foulard, fondamentali per coprire la testa ormai priva di capelli. Rosa è anche il colore del diario dell’altra sua figlia. Azzurro è il colore delle pareti della stanza in cui è imprigionata, ma anche la tonalità del cielo e del mare che si vede in lontananza. Un giorno vorrà guardarlo di nuovo, da vicino, magari con un bel gelato in mano.
Rosso è il colore del vomito, dopo una sfiancante seduta di chemioterapia, ma più intenso di tonalità è quello del cuore, che continua a battere, ad emozionarsi e a sperare.
Verde è il colore della bacinella, su cui chinare la testa, ma anche quello del camice dei volontari con cui scambiare quattro chiacchiere, ridendo e scherzando, facendo trascorrere allegramente il tempo.

“Sfida accettata” per me è andare una volta a settimana nei reparti di oncoematologia pediatrica per cercare di dare il mio piccolo contributo da volontario.
“Sfida accettata” è fare qualcosa di concreto nella ricerca contro il cancro ma è anche sensibilizzare sull’argomento come si è cercato di fare con questo esperimento.
Come dice Deborah, il bianco e il nero non sono però i colori adatti. Un arcobaleno sarebbe più indicato, perchè, nella lotta contro la malattia, anche le tonalità di umore e colore possono fare la differenza.

P.S. Non conosco di persona Deborah e gli aspetti e i colori che ho indicato non descrivono in particolare la sua vita, ma quella di tante persone che combattono ogni giorno contro il bianco e nero del cancro.